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Cubani a Crema, fruttuosa lezione di umiltà   versione testuale
12 maggio 2020

Lo scorso 23 marzo, nel pieno dell’emergenza coronavirus, 53 tra medici specialisti e infermieri sono arrivati dall’Avana per prendere servizio all’ospedale da campo montato dai militari del Reparto Sanità Milano davanti all’ospedale di Crema. La città lombarda ha aperto le braccia e il cuore a questi professionisti della salute, venuti dall’altro capo del mondo in un momento drammatico della sua storia. Il vescovo, Daniele Gianotti, ha messo loro a disposizione l’ex convento di Sant’Angela Merici, un bell’edificio rinascimentale, perché si sentissero accolti con tutti gli onori, e la Caritas diocesana ha curato gli aspetti pratici dell’accoglienza. Anche il comune ha aperto le porte di un albergo. A dare il benvenuto ai sanitari cubani è stata anche la comunità latino-americana, che ha pensato di offrire un pranzo con i piatti nazionali, tra i quali non è potuto mancare il congris, versione caraibica del nostrano riso e fagioli.
«Non mi sono mai sentita tanto orgogliosa come in questi giorni. Per una volta non erano i cremaschi ad aiutare noi, ma noi loro», confessa una delle cuoche volontarie, Irina Pol Castro, che ha lasciato Cuba 15 anni fa per cercare fortuna in Europa e oggi lavora come operaia in un’azienda di cosmesi della città.
Potere della pandemia: un ribaltamento dei ruoli in piena regola. Tra i tanti effetti collaterali, sicuramente il meno dannoso. Anzi, al contrario, forse addirittura benefico. Ci ha ragionato sopra il giovane, e laico, direttore della Caritas diocesana, Claudio Dagheti, che di Covid 19 si è anche ammalato, fortunatamente senza sviluppare i sintomi più violenti. In piena pandemia ha affidato i suoi pensieri a un post su Facebook e ora, terminata la fase più acuta dell’emergenza, riprende la riflessione.
«Sono stato in Kosovo dopo la guerra nei Balcani, all’Aquila dopo il terremoto. In quelle missioni ero io che soccorrevo gli altri. Questa volta è stato diverso, è stata la mia gente, io stesso, ad avere avuto bisogno. Mi sono scoperto fragile, è vero, ho dovuto prendere atto che la regione delle eccellenze non era pronta a questa crisi. Non è stato piacevole, certo. Ma forse, proprio grazie alla pandemia (e anche questo non è facile da digerire), sono riuscito a capire davvero, dopo anni, i sentimenti di tutti quei kosovari e aquilani sfollati che avevo incontrato nelle missioni umanitarie. Forse solo oggi posso dire di sentirmi davvero vicino a loro. Una lezione di umiltà, che mi auguro possa dare frutto».
 
La nemesi e la collaborazione
L’orgoglio lombardo è stato messo a dura prova dall’emergenza sanitaria. La regione che si è sempre vantata di avere il sistema sanitario migliore del paese è anche quella che ha pagato il tributo maggiore di vittime alla pandemia. Nella provincia di Cremona (di cui Crema fa parte) – al secondo posto a livello nazionale per tasso di mortalità (dopo Bergamo) –, il numero di decessi è stato nei mesi di marzo e aprile in media 4 volte superiore rispetto allo stesso periodo nell’anno precedente.
Non solo. La regione più produttiva del paese ha dovuto spegnere i motori per difendersi dal contagio. Uno shock non soltanto economico e sociale, ma anche psicologico. La terra del lavoro bloccata in casa: una nemesi.
I primi a pagare il conto sono stati i più poveri. A mettersi in coda davanti ai centri di ascolto per chiedere aiuti alimentari sono state prima le colf e le badanti assunte in nero, rimaste senza impiego, in parte perché le famiglie dove prestavano servizio preoccupate per il contagio hanno preferito farne a meno, in parte perché non potevano giustificare gli spostamenti verso luoghi di lavoro che ufficialmente non esistevano. Poi sono arrivati addetti alle pulizie, camerieri, lavapiatti, che anche quando hanno ricevuto la cassa integrazione (e per alcuni l’attesa dura ancora) si sono ritrovati con entrate insufficienti per pagare bollette e affitti.
Dopo le vittime del virus, è toccato fare i conti con le vittime delle conseguenze della pandemia. E il bilancio finale, ancora tutto da chiudere, potrebbe addirittura essere ancora più pesante. Per il momento Caritas Italiana stima che le persone che durante la quarantena hanno chiesto aiuto sono state almeno 38.580, il doppio di quelle che sono state assistite nei due mesi precedenti alla crisi. «Il virus ha fatto venire al pettine tutti i nodi irrisolti: nel mondo della sanità, in quello del welfare, in quello produttivo», riassume Dagheti.
Eppure proprio la crisi così inaspettata ha messo in circolo nuove energie. Per dare un pronto soccorso economico agli impoveriti da Covid, diverse diocesi lombarde hanno istituito fondi di solidarietà. A Crema l’iniziativa lanciata dal vescovo ha raccolto l’adesione del 90% dei comuni del territorio. La Bassa padana lombarda non è quella emiliana, raccontata da Giovannino Guareschi nella saga di don Camillo e Peppone. Ma anche qui non era mai accaduto che parroci e sindaci di ogni colore politico fossero tanto uniti. «Ha potuto più il Covid 19 che decenni di convegni e dibattiti sulla sussidiarietà», riconosce Dagheti. C’è solo da augurarsi che, allentata la tensione di fronte al nemico comune, non venga meno anche lo spirito di collaborazione civico.
 
Francesco Chiavarini