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Il Poliambulatorio che aveva capito subito   versione testuale
7 aprile 2020

Che impatto ha il virus, su chi abita la strada, su chi non ha una dimora stabile, su chi viene da lontano? Il tema ha avuto una qualche risonanza mediatica, all’alba dell’emergenza sanitaria, con una discreta serie di articoli e servizi tv volti a capire se e come l’epidemia stesse dilagando anche ai piani bassissimi della scala sociale. Forse perché – inconfessabile retropensiero collettivo – la figura dell’homeless, del marginale, del rifugiato e del migrante è automaticamente associabile e associata a quella dell’untore. Quando poi si è appurato che il progredire di Covid non si originava dai margini della società, i riflettori si sono spenti. Con il rischio che chi quei margini li frequenta, sia lasciato ancor più escluso (dalle pratiche preventive, dalle cure, da una qualche forma di ricovero) di quanto non fosse in precedenza. 
A questo tema è dedicata una lettera che Fio.psd, la Federazione degli organismi che si occupano di persone senza dimora, ha scritto ai presidenti Mattarella e Conte. Sull'argomento, qualche giorno prima, si era soffermato un interessante articolo ("Vorrei restare a casa") che Salvatore Geraci, medico, responsabile del Poliambulatorio di Caritas Roma alla Stazione Termini, ha scritto insieme ad alcuni colleghi per il blog Salute internazionale. «I diversi Decreti governativi non hanno finora considerato gli ultimi, cioè proprio le persone socialmente più fragili – si legge nel testo –, quelle che, se venissero in contatto con il Sars-CoV-2, potrebbero avere meno possibilità di evitare le conseguenze clinicamente più rischiose. Stiamo parlando sia dei cosiddetti homeless, che vivono per strada […], ma anche di tutte quelle persone, italiane e straniere, provvisoriamente accolte in strutture di accoglienza come ostelli, case famiglia per minori non accompagnati o centri di accoglienza per stranieri (Cara, Cas, Siproimi ecc.), o che vivono nei campi rom più o meno attrezzati». Ovvero tutti coloro che si trovano in situazioni «contraddistinte dal concetto di “comunità confinate”, in cui l’adozione delle raccomandazioni di distanziamento o isolamento sociale si presenta come una sfida estremamente critica, e in cui l’eventuale emersione di casi accertati può determinare situazioni di straordinario allarme sanitario e sociale. A “vedere” le difficoltà oggettive di tutte queste persone sembra esserci stato, fino ad oggi – salvo poche eccezioni – solo chi è abituato a riconoscere e incontrare la fragilità sociale dove essa ha origine e amplificazione, cioè chi sta “sulla strada”».
 
Un diligente triage
A “vedere” le difficoltà dei marginali di fronte al Coronavirus a Roma è anzitutto proprio il Poliambulatorio di via Marsala. Avamposto di cure per i senza-cure e del diritto alla salute per i senza-diritti già in tempi “normali”, quando vi operano su diversi turni circa 300 operatori volontari (medici, farmacisti, assistenti), che gestiscono in media ogni settimana circa 250 accessi (più 150 all’armadio farmaceutico) e 100 visite mediche. «I numeri oggi si sono ridotti, a circa 150 accessi e 50 visite settimanali. Non tanto perché abbiamo meno volontari, avendo dovuto convincere i tanti over 65 a rimanere a casa, quanto perché – chiarisce Geraci – abbiamo scelto l’unica strada che poteva garantire l’apertura in condizioni di reale sicurezza per tutti, utenti e sanitari: una procedura di accesso necessariamente severa e complessa». Ma tanto efficace da essere diventata una sorta di standard per altre strutture di cura che operano “sulla strada”.
Al Poliambulatorio, i percorsi all’ingresso sono dunque stati riorientati, si fanno attentamente osservare misure di distanziamento tra gli utenti, si pratica un triage diligente, si individuano prontamente i (per fortuna finora pochissimi) casi ”sospetti”: una capacità organizzativa che viene da lontano, esattamente dal 2002, quando a far paura fu la Sars, parente più letale ma assai meno sgusciante e diffusivo dell’attuale Covid-19. Già allora il Poliambulatorio di via Marsala aveva molti pazienti cinesi, data anche la vicinanza con il quartiere Esquilino: caratteristica che si è protratta nel tempo, e che ha consentito di attivare le procedure di contenimento (in maniera gradualmente crescente) sin dalla fine di gennaio, ben prima che l’Italia capisse che la minaccia non andava sottovalutata.
Così il Poliambulatorio ha confermato le prestazioni di medicina generale, rivisto la specialistica, sospeso l’odontoiatria, mantenuto aperta (sia pur con personale diverso) la farmacia. E lavora anche come base di consulenza e fonte di formazione per le tante strutture di accoglienza e residenziali di Caritas Roma, che ospitano in totale 550 persone, tra le quali sino a inizio aprile si erano contate sole 15 allerta, e nessun caso di positività. 
 
Chi si è autoisolato, chi era disorientato
Il Poliambulatorio è anche un buon osservatorio sul modo in cui si declina, nelle diverse comunità e culture, la percezione della minaccia costituita dal virus. «Abbiamo impressioni ed esperienze, non rilevazioni scientifiche. Ma posso dire che i cinesi – esemplifica Geraci – si sono autoisolati subito, rispondendo all’appello delle loro autorità in patria, mettendo in atto efficaci strategie di contenimento. Anche le persone provenienti da altri paesi dell’Asia, segnati da un forte spirito collettivistico, hanno avuto reazioni analoghe. Invece gli africani all’inizio erano spaesati, faticavano a capire la minaccia e la reazione da opporle». Quanto al timore della malattia, della sofferenza e della morte, paradossalmente – ma fino a un certo punto – non è il tema dominante tra gli utenti del Poliambulatorio: «I migranti spesso sono giovani, hanno altre preoccupazioni prioritarie. E anche per le persone senza dimora il virus è una disavventura tra le tante, forse nemmeno la peggiore…».
Così si torna all’inizio del ragionamento, ovvero alla necessità di evitare che l’emergenza sanitaria divenga un’ulteriore fonte di esclusione sociale. «Per evitare che accada – conclude Geraci – occorre potenziare l’azione di advocacy nei confronti delle istituzioni. Lo stiamo facendo, in maniera molto coordinata, con tutte le altre associazioni medico-umanitarie. Che arrivano anche a scambiarsi volontari, là dove alcune strutture sono costrette a chiudere. Il terzo settore e il settore non governativo non hanno abdicato ai loro compiti, le istituzioni sembrano più lente a muoversi». Ma non c’è altra strada che collaborare. Perché la salute degli ultimi è, in definitiva, la salute di tutti.
 
Paolo Brivio