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Venerdì 5 Dicembre 2014
Mafia Capitale: i poveri non possono diventare occasione di guadagno   versione testuale

«Occorre distinguere la fatica delle persone che vivono in condizioni problematiche in territori difficili e la loro rabbia, da quelli che strumentalizzano tutto questo». Lo sottolinea il Direttore di Caritas Italiana, don Francesco Soddu, in un’intervista apparsa sul quotidiano "Avvenire" di oggi (.pdf), a commento delle indagini da cui emerge l’intreccio tra mafia, politica (e relativo sottobosco), alle spalle dei poveri e di tutti i cittadini. «Vi è – aggiunge don Soddu - una questione morale da porre senza reticenze: i diritti fondamentali, la vita e il dolore e la paura delle persone non possono essere sfruttati per tornaconti politico-affaristici da nessuno. Ricordiamocelo per il passato, ricordiamocelo per il futuro. E soprattutto ricordiamoci sempre che l’unico vero guadagno che possiamo avere dai poveri è la lezione di vita e lo sprone a pensare e agire in termini di comunità».

Da questa brutta vicenda emerge che si sono arricchiti amministratori e sciacalli e ci hanno rimesso i cittadini e i più poveri che sono stati anche spinti in un’assurda contrapposizione. In fondo però tutti ci abbiamo rimesso a livello valoriale perché hanno prevalso ancora una volta le logiche di esclusiva dimensione economica, che hanno considerato i bisogni delle persone come merci da far fruttare sul mercato.

«Quando il marcio viene a galla – sottolinea Domenico Rosati in una nota di analisi della situazione - chi ha la coscienza pulita ha il dovere di pretendere che si punisca chi è colpevole e si salvaguardi la posizione di chi non lo è. Nel caso della mafia-capitale va respinto il tentativo di trasferire sull’intero mondo della solidarietà sociale le responsabilità che sono proprie di una banda criminale specialista nell’infiltrarsi nell’area pubblica con finalità squallidamente private. Tuttavia si mostra di non comprendere la vera dimensione del problema se ci si limita alla semplice demarcazione del territorio. Non basta affermare e dimostrare che “ne siamo fuori”: occorre chiedersi se si sia fatto tutto quel che era necessario, ciascuno al proprio livello, per impedire che il marcio si accumulasse fino raggiungere i piani alti dell’amministrazione e della politica. E’ un interrogativo che deve interpellare tutti in quanto cittadini e, in modo speciale, in quanto cristiani».

Una storia antica
«Quella della corruzione a Roma – prosegue Rosati - è storia antica. Ma per rimanere a memoria d’uomo di possono evocare almeno due momenti in cui proprio i cattolici si presero il carico di denunciare il malaffare e di indicare la via per bloccarne la diffusione. Il primo momento è quello del febbraio 1974 quando, per un impulso che vide in prima linea la Caritas di don Luigi Di Liegro, un grande convegno diocesano collegò la rilevazione dei “mali di Roma” con le attese di carità e di giustizia della città. Solo dando risposta a queste si sarebbe ridotta l’espansione del guasto. Risultò comunque che molte delle responsabilità della situazione erano da attribuirsi alla classe dirigente della capitale, in larga misura di matrice cattolica, che dunque veniva convocata ad una conversione radicale, delle coscienze non meno che delle strutture. L’altra occasione cadde nel 1992, dopo tangentopoli, quando proprio il Sinodo diocesano, sempre con la spinta di Di Liegro, rilevò l’aggravarsi del quadro e mise in luce gli intrecci tra un potere politico esausto, che pure tendeva a perpetuarsi, ed una realtà socioeconomica disposta a chiudere gli occhi quando non a…"reggere il sacco"».

“Perché evocare questi precedenti? - conclude Rosati - Non solo per indicare una responsabilità più vasta di quelle istituzionali che si stanno accertando. Ma anche per segnalare che non la percezione del male è mancata ma la determinazione nell’affrontarne le cause e le conseguenze. Quella che papa Francesco chiama la globalizzazione dell’indifferenza ha prodotto effetti anche nell’organizzazione della città. Indignazione e turbamento sono atteggiamenti comprensibili. Ma a nessuno è consentito di manifestare sorpresa. Si sapeva esattamente quel che stava accadendo, anche se in forme non puntualmente previste. E si sapeva, e si sa, quel che c’è da fare sia per sgombrare la superficie infestata (e questo è compito della magistratura e delle forze dell’ordine) sia, in profondità, per non esaurire la convivenza civica nell’assemblaggio di interessi egoistici e parziali. E’ qui che si combatte – si vince o si perde – la sfida decisiva. A servizio della quale non c’è niente da inventare: basta togliere dalla polvere le cronache della battaglie perdute».