Dal Kosovo: casco bianco Francesco Gradari
«Ciò che abbellisce il deserto, disse il piccolo principe, è che nasconde un pozzo in qualche luogo»
A. De Saint-Exupery "Il piccolo principe"
Un sabato mattina piovoso di metà agosto, delle donne che si incontrano in casa per prendere assieme un caffè, mangiare qualche dolcetto e parlare del più e del meno. Niente di più normale, niente di speciale, direte voi. Ma non se vi trovate a Mitrovica e le donne in questione sono per metà serbe e per metà albanesi.
Mitrovica è uno dei principali centri urbani del Kosovo, situato nel nord della regione, al confine, se così lo si può definire, con la Repubblica di Serbia e Montenegro. È difficile parlare però di una sola città quando i suoi abitanti vivono in due aree completamente distinte secondo linee di appartenenza etnica: gli albanesi nella zona sud, i serbi in quella nord. Il prodotto dei bombardamenti Nato del 1999 è anche questo: abitanti della stessa città che vivono separati per "ragioni di sicurezza".
E la separazione è resa ancora più visibile dalla presenza di un grande ponte sull’Ibar, il fiume che taglia in due la città, e che come spesso è accaduto nella storia recente della ex-Jugoslavia, si è trasformato più in un confine che in Mitrovica - Ponte sull'Ibar un luogo d’incontro. A nord di Mitrovica, compresa la parte settentrionale della città, si trovano, infatti, per la maggior parte dei villaggi abitati da popolazione serba con solo qualche enclave albanese.
Nel resto del Kosovo la situazione è invece completamente ribaltata: maggioranza albanese nelle città e nelle campagne e qualche enclave serba qua e là. Mitrovica è anche la città del Kosovo, assieme a Prizren, in cui nel marzo 2004 si è tornato per primi a sparare e in cui gli scontri sono stati più violenti: altre chiese sono cadute, diverse abitazioni sono state date alle fiamme.
È in questo contesto così difficile e lacerato che è sorto, nel 1999, su iniziativa di alcune donne locali e di una Ong olandese, il Centro per donne di Mitrovica. Situato nella zona nord, l’edificio del Centro si trova nel solo quartiere della città, il Kodra Minatore, in cui sia ancora possibile vedere serbi, albanesi e altre minoranze vivere fianco a fianco. Per raggiungerlo, chi proviene dalla zona sud della città è costretto a prendere un autobus delle Nazioni Unite, il quale, scortato da vetture militari francesi, si addentra nella parte serba. L’autobus su cui viaggio ha la parte sinistra del vetro anteriore completamente crinata. Quando stupidamente chiedo al giovane seduto al mio fianco il perché, spalancando gli occhi per la sorpresa mi risponde: «the Serbs...».
Arrivato al Centro, provo sin dal primo istante un’emozione stranissima e difficile da spiegare. Ho come l’impressione di entrare in un luogo magico, in una favola, in una realtà fuori dal tempo. Tre stanze: una piccola cucinetta al centro, una sala per il caffè a destra e un’altra piena di giochi e disegni sulla sinistra. Una ventina di donne di tutte le età sedute al tavolo e per terra con la tazza di caffè in mano. Incomincio a parlare con Flora, una delle fondatrici del Centro, ragazza albanese che viveva nel nord di Mitrovica ma che è stata costretta ad abbandonare la sua casa e trasferirsi a sud dopo la guerra. Scopro che la stanza di sinistra è un piccolo asilo: molte donne, infatti, vengono al Centro con i loro bambini. Poi le chiedo che cosa fanno le donne una volta che si sono riunite… e per la seconda volta nell’arco di mezzora ho l’impressione di aver chiesto qualcosa di veramente stupido. Flora mi risponde infatti: «Beviamo un caffè, parliamo dei nostri problemi quotidiani, tutto qua». Mi ero dimenticato che questo a Mitrovica è già praticamente un miracolo.
La nostra conversazione è interrotta dalla direttrice del Centro, o meglio da una delle due direttrici. Già perché ce ne sono due, una serba e una albanese. Mi invita a sedermi al tavolo con lei e altre donne. Sono un po’ imbarazzato, non vorrei disturbare e Flora mi ha appena detto che di solito gli uomini non possono entrare nel Centro. Ma non posso rifiutare, sento che è uno di quei treni che passano solo una volta nella vita e bisogna prenderli al volo. La direttrice mi confida che per loro è difficile incontrarsi, che lo fanno a loro rischio e pericolo. Molte donne si frequentano anche al di fuori del Centro, nelle proprie abitazioni. È difficile perché questo non viene accettato dalla propria comunità, spessissimo neppure dalle proprie famiglie, dai propri mariti, dai propri figli… capisco quindi, un po’ in ritardo, perché gli uomini non possano entrare nel Centro.
Una signora molto anziana mi spiega a gesti che il Centro è una sorta di enclave… ma che non c’è la Kfor a proteggerlo. Avrei bisogno di una giornata, forse più, per rendermi conto di quanto profonda e lucida sia la sua analisi, ma i miei pensieri si devono fermare di fronte ad altre due signore, una serba e una albanese, che incominciano a parlarmi, ognuna nella sua lingua. Vogliono sapere nell’ordine: il mio nome, da dove vengo, se sono fidanzato, cosa faccio in Kosovo. Flora è uscita un attimo, sono senza "interprete"! A gesti e utilizzando le dieci parole di serbo e albanese che conosco provo a spiegarmi. Del resto, se riescono a capirsi tra di loro, donne serbe e albanesi a Mitrovica, niente è impossibile. Credo che sia il linguaggio della pace e della speranza, un linguaggio che in quelle tre ore passate nel Centro mi ha completamente sconvolto e contagiato.
Faccio segno a Flora che è ora di andare. Ma una ragazza ci blocca e ci invita a pranzare da lei. Difficile, forse impossibile, rifiutare. Ci alziamo e incominciamo il giro dei saluti. Nel frattempo le donne all’interno del Centro sono diventate circa una cinquantina e l’asilo è pieno di bambini che disegnano. Avrei voluto saper parlare serbo, albanese e tutte le lingue del mondo per poterle ringraziare, ma la cosa più incredibile è che sono loro a farlo. «Hvala», «faleminderit», «grazie», «thank you» per essere andato lì dentro, aver condiviso con loro parte del mio tempo. Forse non si rendevano conto che con i loro sguardi, i loro gesti, le loro parole, il loro caffè, semplicemente il loro sedersi una accanto all’altra mi stavano facendo un regalo così grande che sarò io a non smettere mai di ringraziarle.
Come tutte le favole però, anche questa era destinata a finire. Fuori dal Centro, la vita è un’altra cosa a Mitrovica: foto di Milosevic per le strade e cartoline di Karadzic e Mladic nella parte serba; moschee nuove di zecca e chiese ortodosse distrutte in quella albanese; case distrutte o bruciate nei quartieri una volta misti. Ciò non toglie però che nel deserto kosovaro queste donne siano state capaci di scavare un pozzo.
Un pozzo di pace.
Agosto 2005