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Il Congo e i paradossi della globalizzazione   versione testuale
17 marzo 2021

La tragica notizia della morte dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista accompagnatore Mustapha Milambo, avvenuta il 22 febbraio, ha acceso i riflettori sulle enormi contraddizioni della Repubblica Democratica del Congo (Congo Rd), paese che è il secondo più esteso dell’Africa, con enormi ricchezze minerarie (tanto da essere definito “uno scandalo geologico”), abbondanza di terre fertili, uno dei maggiori bacini fluviali al mondo e la seconda foresta tropicale dopo l’Amazzonia.
Allo stesso tempo il Congo Rd è una delle nazioni più povere del pianeta, vittima di un’instabilità cronicizzata che ormai perdura da quasi tre decenni e che riguarda soprattutto le province nord-orientali del Nord Kivu, Sud Kivu, Ituri e Tanganyka, ma anche altre aree, come il Kasai (al centro del paese) e il Katanga (a sud-est). In pratica, in tutte le regioni più ricche di risorse naturali, l’ordinarietà è ormai costituita da conflitti localizzati, violenze indiscriminate contro civili, sfollamenti.
Questa situazione ha origini lontane, ancora prima del genocidio ruandese del 1994, che molti considerano l’origine dell’instabilità, dato che le regioni orientali sono sempre state teatro di tensioni con i paesi confinanti (Ruanda, Uganda e Burundi) e di mescolanze di gruppi di diversa etnia e nazionalità, frutto della porosità dei confini che da sempre caratterizza questa regione. Il rapporto tra autoctoni e migranti vecchi e nuovi è sempre stato alquanto controverso. Le questioni della cittadinanza, della democrazia e della distribuzione del potere tra autorità centrali e periferiche tradizionali, in un contesto che è oggetto di ingenti interessi economici, sono tra le cause principali dei conflitti e stanno alla radice delle due guerre che hanno coinvolto la regione dei Grandi Laghi negli anni Novanta e inizi del Duemila, dalle quali ha avuto origine la situazione che perdura ancora oggi.
 
Imprenditori armati
A questo complesso scenario si deve la genesi della molteplicità di gruppi armati che oggi infestano la regione, e che si sono formati attorno a linee di affiliazione etnico-politica e di autodifesa. Secondo un recente rapporto del Kivu Security Tracker, pubblicato dal Congo Research Group, si contano oltre 120 gruppi armati nel nord-est del paese, nel territorio delle province menzionate in precedenza. Tra essi, quattro sono le milizie principali, che di fatto controllano la gran parte del territorio e che sono responsabili, insieme all’esercito regolare, di un terzo di tutti gli scontri e della metà degli omicidi di civili. Si tratta di gruppi guidati da signori della guerra di lungo corso, che nel tempo hanno mutato in parte le motivazioni originarie del proprio agire, divenendo di fatto “imprenditori armati” (Mario Giro, Guerre nere, Guerini Associati 2020), il cui scopo principale è il controllo militare di porzioni di territorio associato alla gestione dei traffici delle risorse naturali. Ma ci sono anche forze mercenarie all’occorrenza al soldo, in modo più o meno opaco, di leader politici, di compagnie private e talvolta dello stesso esercito congolese. Alcuni gruppi hanno saputo unire alla violenza militare forme di vera e propria governance dei territori, colmando l’assenza dello stato.
Negli anni, il rapporto del governo congolese nei confronti di questi gruppi è stato alquanto ambivalente, mai realmente antagonista. Piuttosto, sin dall’epoca della dittatura di Mobutu (protrattasi dal 1965 al 1997), i leader si sono serviti dell’una o dell’altra milizia per i loro interessi politici, e lo stesso vale per i paesi confinanti, tenendo conto anche delle diverse affiliazioni etnico-politiche. Ciò ha di fatto rafforzato e cronicizzato la situazione di insicurezza e instabilità, acuitasi anche a seguito delle vicissitudini politiche nazionali degli ultimi anni, che hanno condotto al cambio alla guida del paese del presidente Joseph Kabila, al potere per quasi un ventennio, con Felix Tshisekedi, vincitore delle controverse elezioni del 30 dicembre 2018, dopo un lungo periodo di transizione non scevro da tensioni.
Tuttavia il nuovo presidente non ha vita facile, in quanto l’ex partito di Kabila ha un’ampia rappresentanza nel parlamento e suoi esponenti detengono ruoli chiave dell’amministrazione. Tshisekedi ha prestato poca attenzione al conflitto nell’Est e i disaccordi tra lui e l'ex presidente hanno ostacolato le riforme nel settore della sicurezza. Allo stesso tempo, la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite (Monusco) è stata ridotta e, in assenza di programmi operativi di smobilitazione, la resa di dozzine di gruppi armati negli ultimi due anni ha avuto scarso impatto.
 
Dati sociali e umanitari impietosi
I problemi della Repubblica Democratica del Congo non sono solo nelle regioni orientali; esso resta ovunque un paese estremamente frammentato, con alti livelli di corruzione. I dati relativi ai problemi sociali e alle emergenze umanitarie sono impietosi: 5,5 milioni sono gli sfollati interni, più del 70% la popolazione sotto il livello di povertà, la mortalità infantile sotto i 5 anni supera i 94 ogni mille nati, la speranza di vita media è di 57,7 anni, circa il 25% della popolazione con più di 15 anni è analfabeta, solo il 28,7% dei cittadini ha accesso a servizi sanitari adeguati e il 52,4% all’acqua potabile. Non solo, ma è nelle foreste del paese che si sta perpetrando un feroce e costante disboscamento, stimato nel 2018 in 11,4 milioni di ettari. Inoltre il fenomeno del landgrabbing ha, in Congo, un’intensità con pochi pari al mondo, per estensione di terreno venduto a grandi compagnie straniere.
La deforestazione riguarda proprio il secondo polmone forestale del mondo, dove si trova il parco dei vulcani Virunga, celebre per la presenza dei gorilla di montagna, dove è avvenuto l’omicidio dell’ambasciatore italiano, vittima di uno scontro a fuoco tra miliziani e ranger dispiegati a tutela del parco. Inoltre è proprio in Congo Rd che è esplosa la prima epidemia di Ebola, riapparsa nuovamente nel 2018 proprio nelle regioni orientali, dove ha causato più di 2 mila morti, e dove è recentemente riemersa, dopo essere stata dichiarata terminata a giugno 2020.
 
Violenza, strumento di controllo
Questo groviglio di violenze, interessi, milizie e affari non ha meritato particolare attenzione mediatica e politica sino all’uccisione dell’ambasciatore, come del resto gran parte dei conflitti dell’Africa sub-sahariana, non essendo il Congo Rd uno dei bacini d’origine dei flussi migratori verso l’Europa e l’Italia, mentre viene per lo più percepito come uno dei tanti contesti africani in cui violenze e povertà sono ascrivibili a rivalità etniche e politiche locali di difficile decifrazione e scarsamente connesse con l’Europa.
In realtà, quanto sta avvenendo nel grande paese africano, così come in altri, ci riguarda molto da vicino, e le sue contraddizioni sono lo specchio di quelle della globalizzazione. I minerali (rame, nichel, cobalto, coltan) di cui il Congo Rd è ricchissimo, rappresentano una quota importante delle materie prime necessarie per l’industria high-tech di tutto il mondo. A questi si aggiungono carbone, oro, diamanti, così come lo sfruttamento della terra allo scopo di produzione di legname, prodotti ittici e altro.
Tali risorse sono oggetto di traffici illeciti gestiti dalle diverse milizie verso il confine orientale e rivendute sui circuiti ufficiali tramite reti transnazionali attive in Uganda, Ruanda e Burundi. Seppur la nascita delle milizie armate e le ragioni inziali dei conflitti non siano ascrivibili al solo sfruttamento delle risorse minerarie, esse oggi sono al centro degli interessi dei vari gruppi armati, affiliati a loro volta a esponenti politici interni ed esterni. Per questa ragione si parla di “economie del conflitto”, in cui la violenza è di fatto uno strumento di controllo politico dei traffici illeciti di cui la globalizzazione si serve: con il paradosso che persino la cosiddetta “transizione ecologica”, se non governata tenendo conto di questi fenomeni, rischia di dare un ulteriore impulso alla domanda di risorse macchiate di sangue.
 
Il ruolo e il coraggio della Chiesa
Questa contraddizione evidenzia ancora una volta l’importanza del concetto dell’“ecologia integrale”, proposto da papa Francesco nell’enciclica Laudato Si’. È necessario consolidare un approccio che conduca ad affrontare insieme, a livello globale, la questione ambientale e quella sociale. Il tema è caro anche alla chiesa congolese, impegnata da sempre nel promuovere lo sviluppo umano integrale e nel denunciare le ingiustizie che affliggono il paese.
La chiesa nazionale è infatti in prima linea da sempre nel chiedere un cambiamento ai vari leader congolesi e alla comunità internazionale. Significativo è stato il ruolo che essa ha svolto nella transizione politica avvenuta tra il 2016 e il 2018, quando ha agito prima come mediatrice tra l’allora presidente Kabila e le forze di opposizione, poi ha dispiegato più di 40 mila volontari per il monitoraggio delle elezioni tenutesi il 30 dicembre 2020.
Questo impegno sul versante della pressione politica affianca l’immenso lavoro svolto nel territorio per la promozione umana, sui fronti dell’educazione, della sanità, della risposta umanitaria e dello sviluppo delle comunità vulnerabili. È uno sforzo che vede anche la Caritas congolese molto attiva, soprattutto nella risposta alle numerose crisi umanitarie dovute a conflitti, catastrofi naturali, epidemie (Ebola, Covid-19). Caritas Italiana collabora da molti anni con Caritas Congo sia in appoggio ai programmi di risposta umanitaria nel Nord Kivu e in altre aree, sia per finanziare microprogetti di sviluppo realizzati in tutto il paese, in favore principalmente di comunità rurali, al fine di rafforzarne le autonome capacità di autosostentamento. È una goccia in un mare di problemi. Ma è anche un modo per testimoniare speranza, in un paese che da troppo tempo sembra fare di tutto per negarla.
 
Fabrizio Cavalletti