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Per un carcere che rieduchi davvero   versione testuale
8 marzo 2020

L’epidemia causata dal virus Sars-CoV-2 era stata individuata in Italia da poco più di un mese quando, all’inizio di marzo 2020, furono registrati i primi casi di Covid-19 nelle carceri italiane. Il mese successivo ci furono le prime vittime. Prima ancora c’erano state le vittime delle proteste e delle rivolte scoppiate in alcuni penitenziari: 13 persone decedute, alcune dopo il trasferimento in altri istituti. Rivolte determinatesi anche per effetto di una «comunicazione sbagliata», come l’ha definita il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nella sua ultima relazione al Parlamento. Tale comunicazione aveva sommato, per le persone detenute, la paura del contagio all’angoscia di trovarsi tagliate fuori da ogni contatto con i familiari e con il mondo esterno, chiuse in celle sovraffollate senza più nemmeno la possibilità di svolgere attività lavorative, formative e ricreative.
Il virus ha reso così evidente, una volta in più, il fallimento del sistema penitenziario italiano, strutturalmente sovraffollato, chiamato a rispondere a urgenze sociali che andrebbero affrontate, piuttosto, con politiche e interventi socio-lavorativi, sanitari e abitativi, sbandierato come soluzione buona per ogni problema da un chiacchiericcio politico incapace di proporre alternative e di depenalizzare quei comportamenti che tanto pesano sul sistema penale, senza rappresentare una vera minaccia sociale.
Attento alla questione carceraria e preoccupato dalle conseguenze che il virus avrebbe potuto produrre nelle carceri sovraffollate, papa Francesco si era appellato, nell’Angelus di domenica 29 marzo 2020, alle autorità perché fossero sensibili al problema e operassero «per evitare tragedie future».
 
Presenze ridotte, ma solo leggermente
Durante la prima ondata, comunque, il sistema penitenziario è parso reggere bene, con un numero di contagi molto ridotto e con una gestione sanitaria che, soprattutto in alcuni casi, ha efficacemente contrastato la pandemia. Tale tenuta sanitaria ha però avuto ripercussioni molto pesanti dal punto di vista della restrizione della libertà, con la sospensione di fatto dei colloqui con i familiari; la “chiusura” delle sezioni e, in alcuni casi o momenti, anche delle celle; l’interruzione, o la forte riduzione, di molte attività educative, a partire dalla scuola, e della presenza degli operatori esterni all’amministrazione penitenziaria e dei volontari. Si può facilmente comprendere come in una situazione di privazione della libertà personale, ogni ulteriore limitazione rappresenti un vulnus difficile da comprendere e accettare.
Nel corso del 2020, i provvedimenti legislativi e, soprattutto, l’azione della magistratura di sorveglianza e delle procure, richiamate alla tutela del diritto alla salute da una nota del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, hanno ridotto leggermente le presenze in carcere, ma senza riuscire a risolvere il problema del sovraffollamento, per cui alla fine di gennaio 2021 erano ancora detenute quasi tremila persone in più rispetto ai posti disponibili. Per di più, dopo l’allarme iniziale e un’immediata riduzione delle presenze di più di 7 mila unità tra febbraio e aprile 2020, le scarcerazioni si sono fermate e anzi, nei mesi estivi, fino a ottobre, il numero di detenuti è tornato ad aumentare leggermente.
Le scarcerazioni, poi, non sono state distribuite in maniera uniforme nel territorio nazionale ma, come riporta l’associazione Antigone nel suo rapporto sulle condizioni di detenzione, sono avvenute con differenze, anche molto sensibili, tra regione e regione. Con ancora più di 53 mila persone detenute alla fine di gennaio 2021, è difficile immaginare che, in caso di una maggiore diffusione dei contagi, sia possibile garantire forme adeguate di distanziamento e isolamento sanitario.
 
Il ruolo dei volontari
In effetti, la “seconda ondata” ha colpito il carcere in maniera più dura della prima, soprattutto tra novembre e dicembre 2020, quando il numero dei contagi è salito rapidamente, prima tra gli agenti di polizia penitenziaria, poi tra le persone detenute, fino ad arrivare ai 1.030 casi registrati dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria a metà dicembre, per poi tornare lentamente a scemare, anche a fronte di una nuova e ulteriore stretta sugli ingressi dall’esterno.
Per le persone detenute, questo ha significato tornare a una situazione in cui la vita detentiva si risolveva completamente nello stare chiusi in cella, senza poter frequentare la scuola, incontrare i tutor dell’università e sostenere gli esami, senza colloqui con i familiari, senza il sostegno offerto dai volontari, in alcuni momenti senza potersi recare al lavoro, per chi aveva accesso al lavoro esterno, o perdendo il lavoro interno, per la difficoltà di aziende e cooperative di proseguire le proprie attività in condizioni in cui nulla era più garantito e programmabile. Per qualcuno, soprattutto per le persone più vulnerabili, ha significato l’impossibilità di accedere a generi di prima necessità, a volte persino agli indumenti, ai prodotti per l’igiene personale e alla biancheria, che prima arrivavano con i pacchi dei familiari o grazie alla presenza dei volontari.
Il ruolo dei volontari in carcere non si esaurisce nel, pur importante, aiuto materiale offerto alle persone detenute, ma è fondamentale, come ha spiegato Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, per introdurre all’interno del carcere occasioni di “vita sociale” e per dare visibilità ai reclusi e alle loro istanze. Così, fin dall’inizio della “prima ondata”, la Conferenza ha cercato di dar voce alla sofferenza di chi si è trovato a vivere questo periodo terribile in carcere, sottolineando da un lato la necessità di favorire il più possibile le misure alternative alla detenzione, dall’altro l’importanza di implementare e rendere strutturale l’utilizzo delle tecnologie informatiche per facilitare i colloqui e la frequenza scolastica. Lavorando con le organizzazioni di volontariato che operano in ambito penale e penitenziario, insieme con la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, la Cnvg ha pungolato a più riprese l’amministrazione penitenziaria, perché fosse garantito il riavvio delle attività dei volontari, nel rispetto di tutte le tutele necessarie dal punto di vista sanitario, ma tenendo sempre come punto di riferimento il principio costituzionale della “rieducazione del condannato”. 
 
Indietro (dal digitale) non si torni
La minaccia del contagio ha anche messo a nudo quanto il nostro sistema penitenziario fosse arcaico, un’istituzione che non solo segrega le persone nello spazio ma, contemporaneamente, le rinchiude in un’epoca ben precedente a quella società dell’informazione in cui, ci viene spiegato, viviamo attualmente noi che abitiamo il mondo “esterno”. È un’istituzione totalmente impreparata a utilizzare le risorse tecnologiche disponibili per ridurre l’impatto delle restrizioni imposte.
Così, nell’anno del Covid, di fatto è stato per lo più impossibile garantire la didattica a distanza per chi frequentava la scuola, la formazione o l’università. Con molta fatica, ma con uno sforzo assai apprezzabile, molti istituti si sono attrezzati per rendere possibile, perlomeno, l’effettuazione di colloqui a distanza con i familiari, cosa che certo non sostituisce la presenza fisica, la possibilità di un abbraccio, ma che ha consentito di mantenere i contatti con i propri cari, anche con chi normalmente non poteva sobbarcarsi i costi o la fatica di un viaggio per visitare un parente in carcere.
Ecco, questa è forse la cosa migliore che l’emergenza sanitaria ha reso evidente: che non era poi impossibile, e tutto sommato nemmeno così difficile, garantire un maggiore e migliore accesso alle telefonate e all’utilizzo delle videochiamate per le persone detenute, garantendo loro una continuità di rapporti con i familiari e i loro affetti. Ora diversi istituti si stanno attrezzando anche per permettere lo svolgimento della didattica e del lavoro a distanza. La Casa di reclusione di Opera, a Milano, per esempio, ha avviato un progetto per cablare un intero reparto, anche per permettere la frequenza on line ai corsi universitari. C’è da sperare che da queste “novità” – l’uso delle videochiamate, la maggiore frequenza e durata delle telefonate, l’utilizzo dell’informatica per l’e-learning – non si torni indietro, una volta superata l’emergenza sanitaria, ma che, anzi, queste possibilità vengano incrementate e diffuse in tutti gli istituti penitenziari italiani. Così come è auspicabile che la pandemia sia servita almeno a superare il tabù che impediva l’utilizzo della telefonia mobile all’interno dei reparti.
Soprattutto, ora è necessario che riprendano al più presto, garantendo le condizioni di sicurezza sanitaria necessarie, tutte le attività lavorative, formative, educative e ricreative che, più di altre, assolvevano alla funzione rieducativa della pena stabilita dalla Costituzione, e che dunque sono indispensabili per un corretto funzionamento del sistema penitenziario.
 
Cauto ottimismo sul nuovo governo
Un paio di mesi fa Liliana Segre, senatrice a vita, e Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, hanno lanciato un appello per includere le persone detenute tra le fasce vulnerabili da vaccinare in maniera prioritaria. Sono diverse le ragioni per cui è giusto e opportuno vaccinare al più presto chi è detenuto in carcere, oltre a chi ci lavora, a partire dal fatto che il carcere è una comunità chiusa e che, nelle condizioni di sovraffollamento in cui versano molti istituti, in caso di aumento dei contagi potrebbe diventare molto difficile, se non impossibile, garantire le opportune forme di isolamento e distanziamento. In seguito a questo appello, ripreso da più parti, le persone detenute sono state inserite nella seconda fase della campagna vaccinale e le vaccinazioni negli istituti penitenziari dovrebbero ormai essere iniziate o in fase di avvio.
Nel frattempo, è cambiato il governo e il nuovo esecutivo ha fin da subito suscitato un certo, cauto, ottimismo tra chi si occupa di carcere e di esecuzione penale. Innanzitutto, per la scelta di nominare ministra della giustizia Marta Cartabia, costituzionalista molto impegnata sul tema delle carceri e sulla tutela dei diritti delle persone detenute. In un convegno all’Univeristà di Roma “La Sapienza”, un anno fa, la ministra ha affermato che «l’articolo 27 della Costituzione parla di pena, non di carcere. Noi abbiamo una tradizione centrata sul carcere, ma la Costituzione lascia un campo molto aperto e non è detto che il carcere sia sempre la pena più adeguata».
Lo stesso neo-presidente del Consiglio, Mario Draghi, nel suo intervento alla Camera dei deputati in occasione della mozione di fiducia al governo, ha sottolineato come nell’azione dell'esecutivo «non dovrà essere trascurata la condizione di tutti coloro che lavorano e vivono nelle carceri, spesso sovraffollate, esposti al rischio della paura del contagio e particolarmente colpiti dalle misure necessarie per contrastare la diffusione del virus».
Mettere mano al tema della pena e del carcere non sarà facile, perché si tratta di una questione fortemente divisiva e perché occorre ribaltare un discorso ormai radicato, che vede nel carcere la panacea e l’unica soluzione di molti fenomeni sociali ormai abbandonati dalle politiche di welfare. Da parte loro, Draghi e Cartabia possono contare sui lavori delle commissioni che si sono occupate di riforma del codice penale e su diversi spunti offerti dal corposo documento prodotto dagli Stati generali dell’esecuzione penale, svoltisi tra 2015 e 2018 su iniziativa del ministero della Giustizia. C’è da augurarsi che sappiano far uscire dalla pandemia un sistema della giustizia penale un po’ migliore di come era prima, cercando, come scrisse alcuni anni fa il cardinale Carlo Maria Martini, «con tutte le forze una giustizia almeno un poco più giusta o meno ingiusta».
 
Andrea Molteni e Ileana Montagnini