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Alcuni criteri di intervento nelle operazioni di emergenza internazionale   versione testuale

A fronte dello scenario richiamato, occorre rivedere continuamente i criteri di intervento di quanti, a qualsiasi titolo, si impegnano in questo sforzo di solidarietà internazionale. Alle competenze occorre affiancare le esperienze e, soprattutto, una grande capacità di analisi e di ascolto. Alcuni criteri ormai acquisiti erano patrimonio di pochi fino a qualche anno fa, e viceversa nuovi attori si affacciano a questa ribalta, pensando che la generosità sia l'unica dote richiesta.

1. Ribadiamo con determinazione l'importanza che l'intervento di solidarietà non si esaurisca con la fase di prima emergenza, ma continui nel tempo attraverso i piani di riabilitazione e sviluppo.

Non si tratta solamente di sottolineare l'importanza di queste due ulteriori fasi, ma altresì di programmare (per quanto è possibile programmare un intervento di emergenza) anche i primi soccorsi, tenendo presente le ormai note considerazioni sugli effetti diretti e indotti nel breve e lungo termine di alcune forme di aiuto.

Sono disponibili buoni documenti elaborati, per esempio, a livello di istituzioni europee ed anche di assemblea delle Ong italiane per lo sviluppo. L’esperienza ci insegna che il periodo decisivo per programmare in maniera ottimale l'allocazione dei fondi e delle risorse disponibili è di circa tre mesi dopo la fase acuta del disastro. Le agenzie umanitarie non devono cadere nella tentazione di concentrarsi tutte nella primissima fase, per il fatto che sono accesi i riflettori dei grandi media mondiali e questo facilita la raccolta di fondi e la notorietà delle sigle (e qualche volta dei singoli soggetti). In alcuni casi abbiamo assistito ad una esagerata concentrazione di organismi sullo stesso territorio nelle stesse settimane, causando tra l'altro sconcerto e in qualche caso irritazione tra la popolazione e/o i rifugiati.

Anche lo stile di presenza è importante: se è vero che i moderni mezzi della tecnica possono essere uno strumento importantissimo per migliorare il livello degli interventi, è altrettanto vero che l'ostentazione del possesso di mezzi ultramoderni o, peggio, uno stile e un livello di vita più adatto a una vacanza che a un intervento di soccorso, sono gravi contro-testimonianze, irrispettose della gente in difficoltà.

Il cosiddetto "continuum" tra emergenza-riabilitazione-sviluppo dipende ovviamente dalla tipologia di emergenza che si affronta. A titolo esemplificativo, richiamiamo l'importanza che può avere in chiave socio-economica sul lungo termine l'impostazione dei piani di ricostruzione nei territori colpiti da un'alluvione o da un terremoto e l'attenzione che bisogna riservare al rientro dei profughi nel proprio territorio d'origine, specialmente quando l'esodo ha riguardato popolazioni appartenenti a due o più delle parti in lotta.

2. Nessuno meglio di chi vive in un determinato territorio conosce le situazioni di rischio, le risorse presenti in zona o comunque facilmente accessibili, i possibili sviluppi delle diverse situazioni, oltre che, ovviamente, storia e cultura della popolazione sinistrata. In altre parole, il ricorso alle controparti locali è fondamentale in tutte le diverse fasi e permette di investire fin dall'inizio nei soggetti che, in prospettiva, saranno i protagonisti dell'auspicabile ripresa. Si tratta di non chiedere "di cosa hai bisogno", ma piuttosto "come posso aiutarti ad aiutarti".

Questo approccio può essere più facile o normale per gli organismi ecclesiali o per altre forme di reti internazionali, che spesso hanno sul territorio la propria naturale controparte. Altre realtà pubbliche e private, provenienti dai Paesi donatori, devono invece agire senza la facilitazione che può fornire tale naturale interlocutore in loco; l'importante è che sempre sia salvata una modalità d'intervento che tenga conto del contesto complessivo in cui si opera. In ogni caso il personale esterno non dovrebbe soppiantare le locali strutture e organizzazioni di soccorso, ma supportarle per un tempo definito. Un buon intervento deve comunque trovare il modo di coinvolgere la popolazione sinistrata nella pianificazione, esecuzione e valutazione del programma d'aiuti. In particolari situazioni questo è molto difficile: ad esempio in Somalia meridionale oggi non c'è alcuna autorità pubblica né altra forma di partenariato locale.

3. Un altro criterio importante è quello del cosiddetto "approccio di area": l'organismo che si fa parte attiva deve tener conto del complesso dispiegarsi dell'emergenza, per evitare concentrazioni - e quindi squilibri - e per poter cogliere le coordinate complessive dell'evoluzione dell'emergenza stessa.

Le recenti esperienze in zone come i Balcani o i diversi scenari di conflitto in Africa sono esemplari in tal senso. Viene naturale richiamare l'importanza di un buon coordinamento tra le diverse agenzie, sia nei Paesi che si attivano per l'organizzazione di iniziative di solidarietà, sia nei territori coinvolti. Tale coordinamento è tutt'altro che facile per il complesso intrecciarsi di competenze, mandati, autorizzazioni, impostazioni del lavoro, ecc. La generosità che sconfina nell'improvvisazione di alcuni singoli o piccoli gruppi non adeguatamente preparati, purtroppo, alimenta situazioni di confusione.

4. L'opinione pubblica è comprensibilmente molto sensibile all'utilizzo delle diverse risorse messe a disposizione; alcuni episodi hanno alimentato un certo scetticismo generalizzato nell'umanitario.

Per amore di verità bisogna notare che in qualche caso la pretesa dell'offerente è esagerata: per esempio chiedere che a tutti i costi l'offerta o l'abito donato arrivi per una definita famiglia in un determinato posto, in tempi brevi: una richiesta di questo tipo, non rarissima, non solo non può essere soddisfatta, ma potrebbe alimentare sperequazioni e certamente richiederebbe uno sforzo di concentrazione di tempo e risorse su un singolo gesto che non è possibile permettersi in piena emergenza.

Resta però evidente che tutti gli organismi impegnati su questi fronti debbano impostare le proprie attività, per quanto difficili, su rigorosi criteri di onestà, eticità e professionalità. Purtroppo bastano pochi episodi negativi, riportati con ampio risalto dalla stampa, per gettare fango su una mole immensa di generosità e dedizione. L'aiuto deve essere realmente destinato ai più poveri, ai gruppi più sfavoriti; deve essere adattato ai bisogni e alle abitudini delle popolazioni sinistrate e diversificato, per rispondere alle necessità più urgenti delle diverse fasce deboli (anziani, malati, handicappati ecc.). Le situazioni di emergenza amplificano lo stato di bisogno e, di conseguenza, la situazione di disagio.

Gli interventi devono favorire i raggruppamenti familiari e, per quanto possibile, le loro attività quotidiane (cucina, pulizia, ecc.), evitando l'inattività di giovani e adulti. Spostamenti in massa di bambini nei Paesi donatori sono discutibili come modalità di risposta; a parte la violazione a volte presente delle norme di diritto internazionale, si favorisce un allontanamento dalla famiglia che nel lungo termine può risultare di difficile ricomposizione. Rinviamo agli interessanti studi in merito, consapevoli di proporre una riflessione che va contro la tendenza di una parte dell'opinione pubblica di avere con sé per qualche tempo un "povero bimbo vittima della guerra".

5. Particolare importanza ha l'aspetto della formazione, ovvero la preparazione dei volontari e degli operatori, la formazione come ambito di lavoro e di progettazione anche nelle situazioni di emergenza.

Per quanto riguarda il primo aspetto, è doveroso sottolineare la preparazione di numerose organizzazioni e anche la dedizione di singole persone. Credo però che ampi spazi di miglioramento siano percorribili, specialmente per quanto riguarda la conoscenza del contesto culturale e sociale nel quale si va ad operare e le motivazioni di base. Da una lettera giunta da un campo profughi: «...Ciò che dà speranza al nostro campo è il tipo di presenza, è il modo in cui i volontari stanno a noi, in mezzo alla nostra gente...». Ancora una volta non è stato importante "quanto si è fatto", né "quanto si è portato", ma "come ci si è posti in servizio" dei fratelli e delle sorelle in difficoltà. Essere capaci di mantenere un rapporto diretto che sia espressione di condivisione, vuol dire tradurre la solidarietà in gesti concreti: le persone sono vicino alle persone indipendentemente dalla quantità di aiuto che si può dare.

Per quanto riguarda invece la formazione come ambito di attività, intendo proporre nuovamente una scelta che investe nell'uomo e nelle sue organizzazioni, piuttosto che nelle cose. Se l'intervento riguarda situazioni post-belliche, siamo di fronte ad una scelta che è anche opera di prevenzione per il futuro. Lavorare sulle coscienze, diffondere valori, ricostruire solidarietà, favorire percorsi di riconciliazione equivale a costruire un futuro di pace. La storia insegna che la pace si può far nascere anche dove tutto sembra andare in senso opposto.

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