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Lo scenario attuale   versione testuale

Ha senso parlare di emergenza in situazioni come quelle che quotidianamente si verificano nei Paesi più poveri?

Se in Italia si accerta qualche caso di colera, scatta subito l'emergenza sanitaria; nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo, migliaia di persone soccombono durante le ricorrenti epidemie. Se in Italia c'è un'infiltrazione in un acquedotto, scatta un piano di distribuzione di acqua potabile; nei Paesi poveri milioni di persone utilizzano acque gravemente infette. Se in Italia un Paese è isolato per la neve, scatta subito il piano dei soccorsi, anche se non c'è pericolo immediato di morte per gli abitanti; in molti luoghi del mondo muoiono quotidianamente di stenti e di abbandono migliaia di persone.

In altre parole: è evidente che chi si occupa delle problematiche del sottosviluppo deve far fronte ad emergenze permanenti; tuttavia è altrettanto vero che in particolari momenti, in determinati luoghi si creano situazioni di gravissima emergenza: in questi casi un intervento deciso, veloce, ben organizzato può salvare migliaia di vite umane. Vedremo più avanti come la definizione di emergenza non possa limitarsi alla fase acuta della calamità.

In prima approssimazione, le emergenze possono essere distinte in naturali (terremoti, eruzioni vulcaniche, alluvioni, epidemie....) e provocate dall'uomo (guerre, spostamenti in massa di profughi, fuga di sostanze inquinanti...). Tra le due categorie ci sono a volte stretti collegamenti: ad esempio lo scoppio di un'epidemia può essere conseguenza diretta di situazioni particolari create da perduranti guerriglie; oppure gli effetti di un'alluvione possono essere più devastanti a causa della scarsa o nulla attenzione al territorio nel passato.

Ultimamente le cosiddette "catastrofi umanitarie" sono sempre più spesso da imputare a situazioni di gravi violenze (vere e proprie guerre, prolungato stato di guerriglia, violenze di natura politica, lotte definite tribali o etniche o religiose...) sempre più pagate a caro prezzo dalla popolazione civile ed in particolare dalle fasce più deboli: anziani, bambini, malati.

Scenari come quelli attualmente in atto in Sudan, Uganda, zona centrale dell'Africa, Afghanistan, Balcani, Iraq, Cecenia ed in altre zone meno alla ribalta interrogano le coscienze dell'intera umanità. Situazioni incredibili di violenza a danno di inermi e di innocenti, atti che credevamo di aver relegato nei film di guerra, quali il bottino di conquista del villaggio, la vendetta fine a se stessa, l'arruolamento coatto anche di bambini, le operazioni-suicide, le mutilazioni, le violenze sessuali sono purtroppo di drammatica attualità.

Siamo in presenza di strategie di potere gestite dai cosiddetti "signori della guerra" e da gruppi armati più o meno controllati che hanno come obiettivo il controllo delle ricchezze presenti in determinati luoghi. Le complicità locali ed internazionali completano il quadro.

Di fronte a queste situazioni non basta la "macchina organizzativa" dei soccorsi internazionali, pur importante e difficile da impiantare; occorre uno sforzo più in profondità, che lavora nella prevenzione e nella formazione delle coscienze, nei valori più profondi dell'umanità, sanciti da bellissime dichiarazioni di principio troppo spesso negati nella quotidianità.

Bisogna riconoscere che dal punto di vista tecnico-operativo sono stati fatti passi da gigante; ormai sono disponibili interessanti modelli di intervento nel soccorso (per esempio centralizzato fuori dall'area colpita piuttosto che decentrato al suo interno) ed ancor più interessanti indici di quantificazione degli aiuti internazionali (in relazione ai morti, ai feriti, ai senzatetto, al ripristino della situazione precedente, ecc.).

Tuttavia la realtà ci richiama costantemente che la strada da percorrere è ancora lunga e, forse, un po' diversa. Per esempio l'utilizzo prolungato di alcune metodologie di intervento va condannato: emblematico in questo senso é l'airdrop, cioé il lancio degli aiuti con il paracadute, nel mucchio, a-chi-tocca-tocca. Ha detto un missionario presente in Sudan da più di trenta anni: «È come se durante la seconda guerra mondiale gli Alleati avessero paracadutato viveri su Auschwitz per aiutare gli Ebrei». Parimenti un aiuto alimentare prolungato nel tempo, non mirato e non sottoposto all'autoregolamentazione dettata dall'esperienza, può causare non solo situazioni di dipendenza, ma rovinare per anni il contesto di ripresa produttiva nel settore primario.

La crisi non sta risparmiando neppure le agenzie delle Nazioni Unite. Alle comprensibili difficoltà di questo tipo di interventi si sommano problemi di identità, di riconoscimento, di dipendenza da alcuni Stati-leader. Crediamo sia interesse di tutti lavorare affinché tale situazione si possa superare e quindi vincere le tentazioni diffuse di rinuncia ad una autorità sovranazionale, che nelle situazioni di crisi può e deve avere un ruolo importante, purché giocato nei tempi e nei modi opportuni.

Un elemento importante dell'intervento umanitario è la possibilità di controllo della gestione degli aiuti, piuttosto che una dipendenza totale dalle autorità governative locali. Mi riferisco ovviamente al rischio che gli aiuti di diversa natura vengano utilizzati per fini non certo "umanitari", in particolare stornati per il sostegno ad azioni belliche o comunque sfruttati per un supporto nei fatti al potere che a volte è la concausa evidente delle situazioni a cui si vuole dare risposta.

Infine vorrei richiamare anche il rischio di azioni scorrette dalla parte dei donatori, cioè l'invio di aiuti solo in alcune zone o solo ad alcune parti o ad alcune condizioni particolari, perché è una finta solidarietà, che utilizza la maschera dell'umanitario per sostenere una delle parti in lotta, senza interesse vero per le vittime della situazione.

Alcuni criteri di intervento nelle operazioni di emergenza internazionale

Situazioni particolari meritevoli di approfondimento

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