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Misure anti-povertà, atterraggio tribolato   versione testuale
3 maggio 2021

Nelle scorse settimane i dati preliminari pubblicati dall’Istat sull’aumento del numero di persone in povertà assoluta nel 2020 hanno stimolato una domanda: con quali politiche affrontare la povertà nel nuovo scenario della pandemia?
Sicuramente, in primo luogo occorre capire sempre meglio quante sono le persone in povertà e quali caratteristiche esse abbiano, soprattutto adesso che il livello di consumi si è abbassato per gran parte della popolazione; utilizzare la spesa per consumi come “unità di misura” potrebbe non essere più, dato il contesto emergenziale, il modo migliorare per determinare chi è in povertà (cfr. Franzini e Raitano). Ma se quantificare e qualificare correttamente il fenomeno è il primo passo, non ci si può fermare a esso.
Le misure e gli interventi di contrasto alla povertà sono messi in campo con lo specifico obiettivo di ridurre la povertà, ma a volte la difficoltà o impossibilità di raggiungere le persone che avrebbero diritto a tali prestazioni è una conseguenza del modo stesso (criteri per accedervi, modalità per fare domanda) in cui esse sono definite.
Questione che riguarda solo gli addetti ai lavori? No, se siamo interessati a spenderci, e Caritas lo è, nello sforzo di emancipare le persone da una condizione di disagio, sofferenza e dolore. Basti pensare alle conseguenze concrete che questi temi producono sulla vita delle persone: non ricevere l’aiuto pubblico al quale si avrebbe diritto significa continuare a dover contare sulle reti di supporto informale, aggiungere al disagio economico la sensazione di essere esclusi dal sistema di welfare pubblico, sperimentare che la propria condizione di sofferenza non trova accoglienza e non ha “diritto di cittadinanza” riconosciuto dal decisore politico.
Sorge, insomma, una domanda inquietante: può una misura pubblica generare esclusioni? Non dovrebbe. Ma rischia di accadere. E questo interpella direttamente gli operatori Caritas, impegnati nella difesa dei diritti delle persone che si rivolgono ai centri e servizi da essi animati.
 
Misure che escludono: un paradosso
In Italia, da marzo 2019, un anno prima del dilagare del Coronavirus, è attivo e a regime il Reddito di cittadinanza. Successivamente, nei mesi della pandemia, è stata introdotta e rinnovata per ben tre volte (decreto Agosto 104/2020, decreto Ristori 137/2020, infine il recente decreto Sostegni 41/2021) una misura ulteriore per il sostegno delle persone in difficoltà economica, ovvero il Reddito di emergenza.
Perché due misure distinte?
Che il Reddito di cittadinanza produca, per il modo in cui è disegnato, esclusi e sfavoriti (gli stranieri che non hanno il requisito dei 10 anni di residenza, di cui gli ultimi 2 in via continuativa in Italia, esclusi dal beneficio; le famiglie numerose, che non ricevono un contributo economico proporzionale all’ampiezza del nucleo e sono sfavorite rispetto ai single), lo si è detto in più occasioni (cfr De Capite, Povertà e politiche di contrasto tra presente e futuro: spunti di analisi e ipotesi di lavoro, in Caritas Italiana, Gli anticorpi della solidarietà, Rapporto 2020 su povertà ed esclusione sociale, e anche Gallo-Raitano, Reddito di cittadinanza e Reddito di emergenza: problemi aperti, in Cnel, XXII Rapporto mercato del lavoro e contrattazione collettiva, 2020). Peraltro, fra maggio e settembre 2020 il numero di persone che ha ricevuto il Rdc è aumentato del 30%, anche per effetto dell’avvicinamento alla misura da parte di molti che, pur avendone diritto da prima, ne avevano temuto le condizionalità legate all’inserimento lavorativo, sospese per via del lockdown e delle limitazioni agli spostamenti stabilite dal governo.
I requisiti di accesso al Rdc – soglia Isee, patrimonio mobiliare e immobiliare, reddito equivalente annuo – non avrebbero però garantito un sostegno ai circa 6 milioni di persone che, o perché con contratto di lavoro in scadenza, o perché irregolari, o perché autonomi, erano prive di altre forme di tutela o rimanevano escluse dalle altre forme di aiuto pubblico previste (Cassa integrazione; indennità di disoccupazione NaspI – Nuova assicurazione sociale per l'impiego, ovvero l’indennità per i lavoratori subordinati; Dis-Coll – Indennità per collaboratori coordinati e continuativi). Si è pertanto messa in campo una misura di sostegno al reddito, il Reddito di emergenza (Rem), che avrebbe dovuto temporaneamente sostenere i “non raggiunti dal Rdc”.
Con criteri più laschi del Rdc (soglia Isee e patrimonio mobiliare superiori a quelli del Rdc, assenza di requisito di residenza di 10 anni, assenza del requisito sul patrimonio immobiliare), il Rem avrebbe dovuto toccare una platea di beneficiari potenziali di 800 mila famiglie, corrispondenti a 2 milioni di persone. Di fatto, è però riuscito a coinvolgere 422 mila nuclei, pari a poco meno di 1 milione di persone, che hanno percepito in media un beneficio di 550 euro per 5 mesi consecutivi.
 
Molto da insegnare, per chi voglia programmare
Come si spiega un tasso di accesso così basso, in una fase di emergenza così spinta? L’obbligo di presentazione dell’Isee ha senz’altro rappresentato una difficoltà per i tanti che non lo avevano mai richiesto prima. Questo vincolo, unito a un’insufficiente campagna informativa e di orientamento da parte delle istituzioni preposte alla sua erogazione, può spiegare il mancato successo di una misura come il Rem che, pur avendo fornito, rispetto al Rdc, un aiuto a una quota maggiore di cittadini non comunitari – 22%, contro il 14% del Rdc – e di residenti al nord – 26%, contro il 21% del Rdc (cfr. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Istat, Inps, Inail, Anpal, Il mercato del lavoro 2020. Una lettura integrata, febbraio 2021) –, avrebbe potuto e dovuto rappresentare un aiuto immediato, concreto e inclusivo per molte più persone in difficoltà, che non potevano contare su altri aiuti pubblici in una fase così drammatica.
Ad ogni modo, considerando Rdc e Rem insieme, nel 2020 sono stati 4,3 milioni i percettori di misure di contrasto alla povertà, pari al 7,1% della popolazione residente. Se si pensa ai 5,6 milioni di persone in povertà calcolate dall’Istat, ci si rende conto che il rischio delle esclusioni è una prospettiva tanto più dannosa, quanto più sarebbe necessario intervenire con tempestività, semplicità e chiarezza, come la pandemia richiede.
La vicenda del Reddito di cittadinanza e del Reddito di emergenza ha quindi molto da insegnare, per chi voglia programmare e sviluppare misure di contrasto della povertà realmente incisive.
 
Perché solo un terzo?
Caritas Italiana ha avviato da qualche anno un lavoro di monitoraggio sulle misure nazionali di contrasto alla povertà (Rei prima, Rdc poi), con lo scopo di capire come esse atterrano nei territori (servizi sociali, centri per l’impiego, rete locale di assistenza). Non sempre gli atterraggi vanno lisci, a volte provocano scossoni, altre volte la pista è accidentata e in altri casi ancora non esiste proprio, o necessita di una robusta manutenzione.
Così, non è scontato che il carico di merci arrivi a destinazione. Perché non è scontato che le persone, in particolare quelle che si rivolgono ai servizi Caritas, siano a conoscenza di queste misure, che sappiano come richiederle e quali siano i requisiti per poter fare domanda. E, infine, che a loro venga chiaramente spiegato perché eventualmente non le ottengono.
Dal monitoraggio Caritas è emerso tempo fa che il 35% dei beneficiari dei servizi Caritas era percettore del Rei, quando ancora esisteva quella misura. Per cercare di rispondere alla domanda sul perché una misura come il Reddito d’inclusione fosse percepita solo da una quota pari a poco più di un terzo dei beneficiari dei servizi Caritas, è stato poi avviato un monitoraggio longitudinale della misura del Reddito di cittadinanza, nel frattempo succeduto al Rei, percepito dalle persone che si sono rivolte per un anno ai centri e servizi di 20 Caritas diocesane. Obiettivo dell’iniziativa: capire chi resta fuori e perché, come funziona la misura e come è cambiata, nel tempo, la situazione reddituale e lavorativa di coloro che la ricevono, e capire anche se e in che direzione i servizi e gli aiuti delle Caritas si sono rimodulati per queste persone. Gli esiti di tale lavoro saranno pubblicati in estate all’interno del Rapporto di monitoraggio del Reddito di cittadinanza, che Caritas Italiana sta curando.
 
Partire dalle lacune degli strumenti esistenti
Lo scenario della povertà in Italia sta dunque cambiando in tre direzioni di sviluppo: impoverimento (come dimostrano i dati Istat); persistenza delle situazioni di povertà presenti, data la difficile congiuntura economica; trasversalità, anche a causa dei processi di precarizzazione del lavoro e delle scarse tutele che caratterizzano la nostra epoca. Tutto questo rende necessari interventi che riducano il fenomeno, tenendo conto delle caratteristiche che la pandemia ha portato violentemente allo scoperto, e che non sono state adeguatamente affrontate con le misure messe in campo finora. Per evitare la stratificazione dei problemi, occorre però che nel disegno degli interventi si parta dalle lacune e dai difetti di funzionamento degli strumenti esistenti o già rodati.
Monitorare la fase di attuazione, per capire e cambiare le cose. La voce delle Caritas è ancora una volta fondamentale per il contributo che può dare alla nuova stagione del welfare nel nostro paese.
 
Nunzia De Capite